Ricordi di Domenico Morelli


 Domenico Morelli - Ritratto di Emilio Villari giovane

Questo discorso commemorativo di Filippo Palizzi e dei suoi tempi fu letto all’Accademia Reale di Napoli, nella tornata del 21 giugno 1900. Io però l’avevo pensato e scritto per i giovani dell’Istituto di Belle Arti; e quindi ad essi rivolgo sempre la parola nel testo del discorso, che ho creduto stampare nella sua forma primitiva.
Se l’antica amicizia e la lunga consuetudine artistica col rimpianto Filippo Palizzi mi consentono di potervi intrattenere, quest’oggi, intorno al suo nome glorioso, non sarà inopportuno, io credo, narrarvi un po’ di storia della nostra scuola di pittura in questa seconda metà del secolo, e di narrarvela così, discorrendo, semplicemente, col solo sussidio della mia memoria. Gli artisti coetanei la conoscono questa storia; e per ciò, io penso, dovrà esser caro ad essi risvegliare nell’animo i ricordi delle fervide speranze giovanili e gli entusiasmi della vita artistica di un tempo.
Voi avete sentito elogiare Filippo Palizzi come riformatore della pittura in Napoli – donde poi mosse la riforma degli studi negli altri paesi d’Italia – e come colui che combatté la scuola accademica; ma voi non potete sapere che cosa si sia combattuto, né quale veramente sia stato il bene arrecato alla scuola nostra dalla detta riforma. Per meglio apprezzarla, è necessario conoscere quale fosse la vita intima della nostra piccola famiglia artistica di allora e quale lo stato dell’arte in Napoli, allorché Filippo Palizzi venne a studiare fra noi. Vi narrerò tutto questo e vi aggiungerò qualcos’altra, che valga a farvi intendere la vita dei giovani di quel tempo nel R. Istituto di Belle Arti, e quella dei loro maestri. Non mi fermerò sulle date precise: i periodi evolutivi dell’arte non si contano coi tanti del mese di tale anno.
Quando i fratelli Giuseppe e Filippo Palizzi vennero in Napoli, erasi compiuta una grande opera d’arte: il tempio di S. Francesco di Paola; e si ammiravano da tutti quelle statue di marmo sul portico e sul frontone, che voi, forse, non avete mai guardate attentamente. Credo però che avrete scorto e riconosciuto più volte il grande merito delle due statue equestri in bronzo, poste sul davanti del tempio, a piè della scala: una del grande Canova, l’altra di Antonio Calì, napoletano. Quale è quella del Canova? quale quella del Calì? voi potete facilmente scambiare l’una con l’altra, tanto le uguaglia in tutto il merito e lo stile. E da tutti invero si riconosceva il grande merito del Calì, dalla famiglia artistica e dai concittadini: voi avete disegnato il suo pugillatore come una statua antica.
Anche all’interno della chiesa si ammiravano con riverenza i quadri del Camuccini di Roma e del Benvenuti di Firenze: il miracolo del giovane risorto e la Comunione di S. Ferdinando. E noi giovani lungamente li abbiamo considerati e studiati, quasi per ritenere a memoria quelle qualità pittoriche, che allora dovevano servirci di scuola; ma l’arte dei due maestri era diversa: del quadro del Benvenuti si aveva, a tutta prima, una bella e simpatica impressione, in quello del Camuccini si doveva ammirare il maestro sapiente, il legislatore dell’arte.
Eravi pure un quadro del Landi di Parma, l’artista che Pietro Giordani - nei suoi scritti d’arte - anteponeva a tutti: la Madonna vestita di bianco con due angioli ai lati; una pittura di un realismo imbellettato, che noi rispettavamo, pur senza intenderla affatto.
Dei nostri eravi: la morte di S. Giuseppe del Guerra, il S. Nicola Tolentino del Carta, e la morte di S. Andrea Avellino del De Vivo. Erano tutti maestri celebrati, i quali vivevano in un’atmosfera superiore, e con ciò intendo dire, che noi giovani non avevamo nessun contatto intimo con essi; incontrandoli per via, facevamo loro di cappello, inchinandoci, e solo qualcuno osava di baciar loro la mano.
Tra i nostri artisti di quel tempo, primo era Filippo Marsigli. 

Egli aveva già fatta una vera opera d’arte: il migliore, anzi l’unico suo quadro, che resterà nella storia della pittura del nostro secolo: Omero che canta e i due pastori. La figura di Omero, vecchio, cieco, ispirata dall’arte greca, è stupenda per carattere e per disegno. Peccato che questo quadro stia lontano, a Liverpool, portatovi dal Duca di Aumale! Voi che del Marsigli avete visto solo la Battaglia, che abbiamo nella nostra sala di pittura, non potete figurarvi il merito dell’altro quadro: la distanza che passa fra le due opere è immensa.
In Napoli, non vi erano raccolte di opere d’arte moderna; e noi giovani, ansiosi di venderne, aspettavamo, come il più grande avvenimento della nostra vita, l’apertura dell’Esposizione. Le Esposizioni di Belle Arti erano biennali, e si inauguravano con gran pompa. Il Re vi andava in forma pubblica; i soldati in grande uniforme si schieravano sulla spianata del Museo Nazionale, allora borbonico; i professori, in abito nero, ricevevano la Famiglia Reale, pigliando posto accanto ai ministri e ai dignitari esteri.
Le opere che facevano quasi sempre l’onore della Mostra erano i SAGGI, che mandavano da Roma i nostri pensionati. L’autore dell’opera migliore e più importante di pittura, di scultura e di architettura, era giudicato degno della grande medaglia d’oro, ed il suo nome veniva contrassegnato con la scritta: «premio al merito distinto», e questa distinzione aveva allora un grande valore, non solo nella opinione dei concittadini, ma anche in tutto il Regno.
Non ho cognizione della mostra, alla quale l’Oliva mandò da Roma i suoi quadri: Mario sulle rovine di Cartagine ed il Manlio Torquato; però se ne parlava con grande, anzi grandissima ammirazione. Questi quadri si trovano ora a Capodimonte e sono anche ora lodati, come opere di pittura corretta e di un rilievo scultorio.
Ricorda appena la mostra, cui Mancinelli mandò da Roma: l’Ajace e Cassandra e la Sfida dei Pastori giudicata composizione magistrale. Il Ciccarelli mandò il: Filottete ed il Telemaco e Telmosiri, che canta sotto un bellissimo platano illuminato dal sole: quadro, quest’ultimo, di un vigoroso e grande effetto pittorico d’ombra e di luce. A noi giovani si diceva, allora, che le qualità tutte personali e troppo ardite di quelle pitture erano di esempio pericoloso; e che, invece, per la nostra educazione, dovevamo guardare le pitture del Mancinelli, che aveva qualità di scuola accademica.
Intorno a questo tempo, conobbi Filippo Palizzi.

Egli – più avanzato in età di tutti noi – disegnava, con noi, allo stesso banco della classe elementare di disegno, la testa di Giunone, di prospetto. Noi però copiavamo dalla stampa il chiaroscuro con lo sfumino: egli, invece, disegnava in certo modo particolare, copiando anche i tratti del bulino, così come li aveva distribuiti l’incisore. Si provava, a volte, di farci il ritratto di profilo, senza guardarci, col solo tatto dell’indice della mano sinistra, disegnando con la destra.
Nella tarda vecchiezza, egli si compiaceva di mostrare un documento della sua tenacia giovanile: desideroso di conoscere l’anatomia e non avendo mezzi per comprare un trattato, pensò di copiarne uno, che ebbe in prestito per pochi giorni; e copiò non soltanto le tavole incise in rame, ma riprodusse esattamente anche il testo, imitando alla perfezione perfino i caratteri a stampa.
Non ricordo per quanto tempo egli sia rimasto nelle classi elementari, né quali gessi abbia disegnati: non ne abbiamo parlato mai tra noi.
L’ordine dei nostri studi, allora, era lo stesso di quello che si usa tenere ora; dalla stampa si passava al rilievo, e dalla statua al nudo ed alla pittura. Vi erano concorsi mensili in ogni classe di disegno, e non si usciva dall’una, per entrare all’altra superiore, senza avere avuto due primi premi. Nella classe del nudo si restava sei anni, quanti ne erano assegnati ai pensionati, e si poteva tutti i mesi concorrere ad avere premi. Gli stessi concorsi si facevano nella scuola di paesaggi: ogni mese si eseguiva un disegno dal vero, ed ogni due mesi un dipinto ad olio, anche dal vero. Erano quasi sempre alberi, perché si riteneva che l’albero nel paesaggio si dovesse studiare, come il nudo si studiava nella scuola di figura. Vi era anche un modo speciale di dipingere la quercia, il platano, l’elce ecc. Furono Giacinto Gigante e La Volpe che fecero cancellare dalla grammatica del paesaggio il tocco distintivo del pennello.



Ricordo bene quel giorno, in cui entrammo a vedere i disegni premiati, esposti nelle sale terrene del Museo: con quale interesse ammirammo il disegno di una vaccarella eseguita dal Palizzi e premiata! Questo disegno, conservato per molti anni dall’Economo dell’Istituto di Belle Arti, fu, con grazioso pensiero, donato a Palizzi, quando egli ne fu nominato direttore la prima volta; e fu per lui davvero una cara e gradevole sorpresa. Rivedemmo insieme questo disegno, lo guardammo attentamente, e: «curiosa, - dissi io - pare copiato dalle vaccarelle di gesso». Palizzi lo volle difendere e mi rispose: «ma vedi però con che amore e con che diligenza è fatto; e poi, così si disegnava allora».
Era così infatti. A noi s’insegnava a guardare il vero nella forma esteriore e a segnarlo a contorno, dando a questo una importanza maggiore del chiaroscuro. Vi era l’assioma: «un buon contorno e in mezzo…!». Veramente, in quel disegno mancavano quelle qualità, di che in sèguito si è creata tutta la scuola.
Nell’archivio dell’Istituto sono i documenti di altri premi, avuti per concorso di animali e paesaggi dipinti: io non li ricordo.
Filippo Palizzi erasi allontanato da noi e studiava dal vero nei pascoli di Fuorigrotta. Suo fratello Giuseppe era venuto in Napoli prima di lui e dipingeva paesaggio e figura. Abitavano insieme prima al palazzo Villarosa a S. Mattia, presso una stiratrice che dava in fitto camere agli studenti, e poi in un modestissimo quartierino in cima al palazzo Cavalcante a Toledo. D’indole diversa, i due fratelli, dal medesimo nido, spiccavano il volo in direzione diversa: Giuseppe lontano lontano, suo fratello Filippo a breve cammino.
Giuseppe – lo chiamavano Peppino Palizzi – era bello, di carattere simpatico, di modi geniali; vestiva artisticamente con giacca e berretto di velluto nero. Era conosciuto da tutti: una litografia, esposta a Toledo, lo rappresentava nel suo caratteristico costume, seduto sulla spiaggia, disegnando un gruppo di marinari ed alcune barche. Peppino aveva l’anima e la figura poetica. Era entusiasta di una celebrità teatrale, che allora facea furore al San Carlo, e la seguiva ogni sera, dopo lo spettacolo, fino alla porta della casa di lei. Egli ignorava allora, ed ha ignorato per tutta la vita, di essere amato in segreto da una gentile signorina, la quale era al primo piano nobile del medesimo palazzo Cavalcante, ove egli abitava presso i tetti, e che, solo per vederlo, lo aspettava prona sul balcone, sino a tardissima notte, quando egli rincasava!
Filippo, invece, aveva aspetto poco piacente, ma virile: aveva modi austeri, rispondeva a monosillabi, e si chiudeva sempre nel suo carattere cupo e concentrato, tanto che il fratello e gli amici lo chiamavano per canzonatura: il tomo. Vestiva modestamente, senza mai distinguersi dai più: per quasi metà della vita, non smise mai il cappello a cilindro ed il soprabito nero.
Ai tempi dei quali io parlo, i due fratelli non erano ricchi davvero. Essi contavano sul proprio lavoro, che non dava loro pingui guadagni: eppure questi due giovani, poveri e fieri ad un tempo, non si piegarono mai a fare arte da commercio.
Più modesto di Peppino, Filippo era amato da una sartina, una ragazza semplice, la quale, un giorno, gli offrì in dono un magnifico gilet, di quelli ricchi di ricamo, come usavano allora. Proprio in quel giorno, Filippo si struggeva dalla voglia di dipingere e non poteva; aveva dato fondo ai colori e non aveva mezzi per comprarne. Quel dono fu per lui una vera provvidenza: lo vendette, lo stesso giorno, comperò i colori, e dipinse!
Filippo mi ha raccontato che, un giorno, l’ultimo di carnevale, egli ed il fratello aspettarono a stomaco digiuno, fino alle otto di sera, che si riaprisse la trattoria nel vico Carrozzieri, dove erano soliti desinare, pagando l’oste a mese. Questi era andato con la moglie a godersi le maschere. Ritornato e riaperta l’osteria, i due fratelli si presentarono con aria disinvolta, come se si trovassero lì per caso, di passaggio. Chiesero se vi fosse nulla da cena, ed ebbero, per tutto desinare carnevalesco, un pezzo di carne riscaldata!
Nel raccontarmi questo, Filippo rideva di soddisfazione ed aggiungeva: «questi giovani si lamentano della vita che fanno: oh essa quanto è meno stentata della nostra di allora!» Noi peraltro non ci siamo mai lamentati; anzi eravamo orgogliosi di dover vincere continuamente le avversità della sorte.
Presso a poco in questo stesso tempo, gli venne ordinato un quadro da un principe napoletano. Era la prima opera importante, a cui Filippo si accingeva. Vi lavorò lungamente e con amore e fondò su di essa tutte le speranze sue; ed eguale assegnamento vi fece il fratello Peppino, giacché erano mesi che tutti e due vivevano a credito, per l’alloggio e pel vitto. Finita l’opera, la portò egli stesso al sontuoso palazzo del principe: aspettò più ore in anticamera, e finalmente fu ammesso al cospetto del signore, con un poco di ansia e un poco di dispetto per la lunga attesa. L’opera piacque; pure, allorché Filippo ne chiese il prezzo, il principe si mostrò scontento e voleva che fosse sensibilmente ridotto. Palazzi rifiutò con disdegno e portò via il quadro; ma, al suo ritorno a casa, furono scene di disperazione; Peppino si gettò affannosamente sul letto, e Filippo si lasciò cadere sopra una sedia quasi svenuto: tutte le speranze erano crollate!
Un loro conterraneo, che già godeva un nome noto nel commercio e contava cospicue aderenze, s’interessò alla sorte dei due fratelli e narrò lo spiacevole caso a D. Gaetano Genovese, architetto di Corte, uomo di cuore e di valore.
Il Genovese vide il quadro; gli piacque: il giorno stesso, ne parlò al Re, Ferdinando II. Anche al Re piacque, e fu da lui acquistato ad un prezzo quasi doppio di quello richiesto dal Palazzi al principe napolitano. Quel quadro, intitolato il Mese di Maggio, ebbe l’onore di una illustrazione nel Poliorama Pittoresco; ed ora trovasi nella Reggia di Napoli, insieme con un altro, che gli fa riscontro, e che il Re ordinò e pagò anche lautamente.
Questo fatto segnò la fortuna del Palizzi ed il suo ingresso a Corte, come maestro di pittura del Conte d’Aquila, fratello del Re, e della sorella D. Amalia, moglie dello spagnuolo D. Sebastiano, principe e pittore.
Del fratello Giuseppe noi giovani dell’Istituto sapevamo soltanto che era pittore di genio.
Concentrati nella scuola, non facevamo che aiutarci a vicenda: i più bravi consigliavano i più deboli. Solo nei concorsi per i premi si diventava egoisti e peggio.
Andavamo a scuola di anatomia al pianterreno delle carceri di S. Francesco, luogo di malviventi e di prostitute. Ciò nonostante, quando il custode, alle undici, ci avvertiva che era giorno di lezione, si correva a testa bassa, infilando presto la porta, col solo vivo desiderio d’imparare. Il professore non aveva altri riguardi per noi artisti, fuori quello di coprire il resto del cadavere, non preparato per la lezione, con uno straccio sporco; e noi stavamo lì, attentissimi a guardare, e spese dello stomaco.
Nella scuola si sapeva che, fra le cognizioni necessarie ad appendersi, eravi la prospettiva. Ma, che cosa fosse propriamente, non sapevamo. Un giorno, fummo avvertiti di riunirci, per accompagnare la salma del professore di prospettiva alla Chiesa: dunque, vi era un professore di prospettiva: ma a chi insegnava?
In sèguito, ci fu benigno Raffaele Bova, che c’insegnò di prospettiva quel tanto che sapeva.
Nell’Istituto non vi era alcuno, che potesse darci un avviamento allo studio della storia; e, per chi non aveva neppure una limitata educazione letteraria, era un affar serio! Di tutti gli scolari dell’Istituto sei o sette, per la grande volontà d’istruirci, leggemmo, senza consigli di alcuno, quei libri che fu possibile procurarci.
Non ricordo chi di noi scoprì, una volta, che vi era un libro prezioso per la nostra educazione, scritto dal pittore Raffaele Menges. Dalle 12 alle 2, andavamo insieme tre o quattro alla biblicoteca, per leggere, in questo libro, della grandezza di Raffaello per il disegno, di Tiziano per il colorito e del Correggio per il chiaroscuro, per la luce. Ma erano vane parole per noi; come mettere insieme le qualità di questi artisti diversi? Noi non avevamo neppur modo di riscontrare né il disegno di Raffaello, né il colorito di Tiziano, né il chiaroscuro del Correggio, nelle poche pitture raccolte nella nostra Quadreria, chiusa a noi per comodo dei forestieri.
La Esposizione del 1845, se non sbaglio, fu per noi un vero avvenimento.
In uno spazio, diviso da due pareti, con ottima luce, erano esposti, l’uno di contro all’altro, i dipinti dei fratelli Palizzi. – Giuseppe aveva esposto un quadro, che s’intitolava allora di paesaggio storico, ed il soggetto era tratto dalla novella del Sestini Pia dei Tolomei. A prima vista, colpiva l’intonazione malinconica, triste, che attirava a lungo lo sguardo: in fondo, una montagna boscosa della maremma toscana; lontano, su per l’erta un convoglio funebre; avanti, in primo piano, un cavaliere antico ed un eremita, a cavallo; sotto il quadro si leggevano due ottave della leggenda romantica.
Che impressione! Una di quelle impressioni che non si dimenticano più dai giovani artisti, e segnano un momento importante della loro vita. Che belle visioni suscitò quel quadro nella mia fantasia: nessun libro poteva dirmi tanto; e pure, era quello il momento, in cui la letteratura si era volta al romanticismo!
Di fronte, nella parete opposta, erano due studi ad olio di Filippo: un contadinello abruzzese, che suona la cennamella, ed un altro contadino vecchio, anche abruzzese, che tira la corda, cui era legato un asino, caduto. Questi studi sono ora esposti nella sala Palizzi della Galleria d’arte moderna in Roma.
Mi pare che, nella stessa esposizione, Beniamino De Francesco, anche lui pittore realista, esponesse un suo quadro di paesaggio d’invenzione: un effetto di luna e, nella fenditura di una roccia sul mare, dei pirati turchi, che, rapita una donna vestita di bianco, scendono a salti in una barca sottoposta.

Questa fu per noi la prima rivelazione di una pittura, diversa dalle altre esposte in quella mostra. Gli studi di Filippo, specialmente, mi colpirono, per una verità genuina, che non era di nessuna scuola. Girando tutti i giorni per le sale della esposizione, mi fermavo sempre a guardare quei contadini; ma nessuno di noi giovani, allora, e neanche nessun artista, pur ammirando quelle pitture, ebbe mai il pensiero, che con la stessa verità di esecuzione si potesse dipingere Ulisse, Archimede, Mosè, ecc.
Come quando, finita una festa, e tolto via il parato, ritornano malinconicamente alla vista i consueti antichi disegni delle pareti domestiche, così avveniva a noi, quando, chiusa l’esposizione, ripigliando il lavoro usato nelle sale della nostra scuola, tornavamo a rivedere tutte le statue, i frammenti, le teste di gesso, con la stessa luce, le stesse ombre, al medesimo posto, come le avevano disegnate i più bravi artisti, quali l’Angelini, il Citarelli, l’Oliva, il Mancinelli, e come dovevamo studiarle anche noi: ché non si sarebbe potuto divenire artista, senza aver vissuto degli anni nell’ambiente di quella scuola e senza aver conseguiti tanti premi.
E noi si studiava davvero, anche fuori la scuola. Altamura si univa a noi, solo quando andavano a disegnare in campagna alberi e case, sempre a contorno. Immaginate voi come si possano disegnare a contorno gli scogli, l’arena, l’acqua? E pure, così disegnava Achille Giganti, così il Carelli!



Il ricordo degli studi esposti da Filippo Palizzi ci ammoniva, che, per giungere anche noi a farli, bisognava tenere altra via.
Un giorno, Altamura ed io, facendoci animo, andammo a picchiare all’uscio dei fratelli Palizzi nella via S. Maria in Portico a Chiaia. Essi ci accolsero cortesemente, si mostrarono lusingati dal nostro desiderio di vedere il loro studio e ci lasciarono ammirare attentamente i loro dipinti, accogliendo con certo orgoglio la nostra sentita ammirazione. Peppino, più espansivo, ci fece vedere un paesaggio d’invenzione, non ancor tutto dipinto: esso è rimasto così come noi lo vedemmo allora, ed ora fa parte della collezione dei fratelli Palizzi nella sala del nostro Istituto. Per qual via essi fossero arrivati a fare quei dipinti, a noi non riuscì d’indovinare in quella troppo breve conversazione: poco dopo, sapemmo che Filippo era andato in Moldavia e Peppino aveva fissata la sua dimora a Parigi.
Si avvicinava intanto il quarantotto; e, per quel risveglio del sentimento di italianità penetrato anche più forte in tutti noi, pregammo il professore di pittura di darci, come tema del concorso trimestrale, un soggetto tratto dalla Divina Commedia. Avemmo, in fatti, dal direttore il tema: L’angelo che conduce la anime nella barca (Purgatorio, canto II).
La visione dantesca era all’alba: e, per poter studiare dal vero il colore arancio della bella aurora e il tremolar della marina, passammo due notti di sèguito all’aria aperta, io e due carissimi compagni.
Era la prima volta che m’ingegnavo con ardore di studiare dal vero, armonizzando la luce ed il colore del fondo con la figura. Il tema e la grandezza della tela spaventarono tutti i compagni: rimanemmo soli a concorrere Saponiere ed io; ma, durante il concorso, al mio competitore non riuscì di continuare, ed io ebbi il premio con una lusinghiera raccomandazione al Ministro. Questi, essendo la mia tela più grande il doppio di quanto era prescritto, volle aggiungere una gratificazione pari al premio: e così, io potetti andare a Roma. Dopo quattro giorni di viaggio, vi arrivai di sera, con un compagno paesista, bagnati entrambi dalla pioggia. Fummo insieme alloggiati nello studio di Cipolla; ma il mobilio del pensionato era per un solo artista e si dovette quindi dormir per terra.
Il giorno seguente, per tempo, incominciai a girare per la città ed a guardare, guardare, senza però saper vedere: io sentivo soltanto di stare a Roma.
Con la smania di ammirar tutte quelle meraviglie, di cui conoscevo soltanto i nomi, – la Trasfigurazione di Raffaello, il Mosè di Michelangelo, il Giudizio, la Comunione di S. Girolamo, il Foro S. Pietro, – andai al Vaticano, alla Cappella Sistina, a S. Pietro in Vincoli, dovunque erano opere d’arte da ammirare.
Ritornai a Napoli, dopo un mese: ero meno espansivo e molto peoccupato; di due cose soltanto potetti soddisfare la curiosità dei miei amici: dello studio, cioè del Coghetti, bergamasco, e della cuola dei puristi.
Dei nostri pensionati, solo il Cipolla aveva anima, ingegno e uore d’artista. Egli volle condurmi allo studio del Coghetti. Quando i arrivammo, Cipolla, con mia grande meraviglia, spinse la porta; e, enza chiedere permesso, altro che un «ciao, Checco», entrò. Il professore, che stava a dipingere in cima ad una grande tela, rispose con un altro «ciao», ed io entrai timidamente, levandomi il cappello. Cipolla mi presentò come un futuro pensionato; le prime parole che mi rivolse dall’alto il professore furono:«metti il cappello: qui, non stai a Napoli». E, con molta familiarità, mi permise di veder tutto ciò che v’era nello studio: tele abbozzate, bozzetti, disegni ecc.

Il magnifico grande cartone per il quadro della Basilica di S. Paolo mi sbalordì; e mi parve impossibile di poter giungere, un giorno, a disegnare quei nudi con sì grande sapere e con quel gusto d’arte, che faceva ricordar tanto il Domenichino!

Mentre io girava per lo studio, fra le tele e i cartoni, per quasi un’ora e senza far il più piccolo rumore, il Professore in alto continuava a dipingere tranquillamente. Io, tutto rimpicciolito, lo ringraziava di così larga cortesia, ma egli mi troncò la parola, dicendomi: «che cosa vai a fare a Napoli? resta qui; se vuoi dipingere, vedi, là vi sono pennelli, colori, tele; resta qui».Ringraziai di nuovo ed andai via col Cipolla. Per via, non si potette fare a meno di osservare quanta differenza vi fosse tra il maestro di Roma e gli artisti di Napoli. Questi, tanto poco accessibili per noi giovani, facevano di tutto un mistero: non si doveva sapere che cosa dipingessero, se non quando era finito il quadro; e, allorché ci era concesso di entrare nel loro studio,disegni, cartoni, abbozzi, tutto era rivolto contro il muro! Un bravo professore ci nascondeva persino la tavolozza!
Anche il modo di studiare era, in Napoli, tanto diverso. A noi,infatti, s’insegnava la pittura, facendoci copiare solamente statue e gessi, senza darci alcuna cognizione della pittura antica; imparavamo, cioè, la pittura studiando sulla scultura, e senza aver modo di formarci quel gusto pittorico, che viene dalla continua osservazione e dallo studio delle antiche pitture. A Roma, invece, gli artisti avevano grande facilità di fare studi sulle pitture del Vaticano, e tutti studiavano non solo all’Accademia, ma sui quadri degli antichi maestri dell’arte. In quel tempo era nata anche a Roma la scuola dei puristi: si diceva che, per raggiungere il merito di Raffaello, bisognava cominciare da Giotto. Questa scuola aveva a capo Overbeck.
La vita che facevano gli artisti a Roma, dentro e fuori lo studio, era anche molto diversa dalla nostra: essi erano tanta parte della vita dei cittadini, ed i cittadini tanta parte della vita degli artisti. Questi, venuti da lontanissime regioni, diversi di ducazione, di costumi, di abitudini, si acclimavano facilmente, tanto che molti, venuti per restar solo pochi anni a Roma, vi fermavano poi la loro dimora per tutta la vita.
Tutto ciò mi fece sentire il bisogno di ritornare a Roma; ed io vi tornai, portando con me una tela, sulla quale avevo disegnato, grande al vero, la Madonna che culla il Bambino, cantando la ninna nanna che gli angeli accompagnano col suono del salterio, dell’arpa e del liuto. La mia intenzione era di dare quel quadro come una copia di antica pittura,dipingendovi anche la cornice, come se fosse stata intagliata nella pietra del muro.
Ma, che stenti! Non avevo mezzi per avere i modelli; e però, incoraggiato dalla scuola dei puristi - che, in opposizione al realismo, non copiavano dal modello vivo, ma s’ispiravano alle pitture dal 300 al Rinascimento -, andavo la mattina al Vaticano e guardavo, guardavo; e ritornavo allo studio con pochi segni nell’album, ritenendo solo bene a memoria quello che poteva essermi di guida per dipingere il resto del giorno. Sarebbe lungo ridir la lotta quotidiana per dipingere il quadro, senza interruzione. Pure, il quadro finalmente fu compiuto e, dopo una breve esposizione al Popolo, avvolta la tela, ritornai in Napoli.
Ma già tutto il convenzionalismo della nostra scuola accademica era scosso. Fuori dell’Istituto vi era come una famiglia di paesisti, che dipingevano sempre in campagna: non vi era ancora un mezzo meccanico, per riprodurre le belle vedute del nostro paese. Questi paesisti facevano dei bellissimi studi ad olio e ad acquerello di quei posti, che sono più pittoreschi ed interessanti per i forestieri.



 Giacinto Gigante - Sorrento



 Giacinto Gigante - Amalfi



 Giacinto Gigante - Sorrento


 Giacinto Gigante - Amalfi



Il Gigante, artista geniale, ritraeva meglio di tutti quella festa di colore e di luce, che è il carattere proprio delle nostre campagne e delle nostre marine.

Gonsalvo Carelli aveva dipinta una grande tela, ispirata dai pressi di Gragnano, ritenuta meravigliosa pittura per la giovanis-sima età dell’artista; Achille Vianelli faceva fotograficamente, a seppia, ricordi di paesaggi, di architetture, e d’interni pittoreschi, anche per forestieri.



Il La Volpe ritraeva spesso Sorrento dalla marina, di un effetto di luce e di una simpatia attraente di colori, di una fattura tutta sua propria.
Lo Smargiassi dipingeva grandi paesaggi d’invenzione o composizione, come si diceva allora: non copiava dal vero e quindi la sua pittura riusciva di un carattere scenografico, che dava sui nervi al Palizzi. Credo che, per questa divergenza di principii, non si parlassero mai, né si salutassero, neppure incontrandosi nelle sale del Principe Reale, pel quale entrambi dipingevano spesso.
Un altro paesista dipingeva per la Corte, e faceva scuola: era Salvatore Fergola. 



Egli non ammetteva altri colori, per la sua tavolozza, che le terre, ed affermava che la terra gialla bastasse per porre i verdi (giacché bisogna sapere che la terra verde, allora, non era conosciuta). Sentenziava manierati quei paesaggi fatti con altri colori, mentre egli non faceva che dipingere alberi in campagna.
È stato affermato, ed è vero, che questa famiglia di paesisti,che il Villari ha chiamata «scuola di Posillipo», abbia data una spinta alla riforma della pittura fra noi. Essi dipingevano, studiando sempre all’aria aperta: era naturale che censurassero i figuristi, che dipingevano dal modello, con la luce dello studio,mentre volevano rappresentare scene all’aria aperta. E veramente, se ben si consideri, il fondo di questi quadri, fatto di paesaggio o di architettura, era come il fondo dipinto, che i fotografi mettono dietro alle persone fotografate nell’interno delle loro sale. I paesisti ci misero sull’avviso: la loro critica colpiva nel segno, ma non bastava a metterci sulla buona via: come fare?
Faceva scuola, fuori dall’Istituto, un altro gruppo di artisti con a capo Giuseppe Bonolis da Teramo, e ne facevan parte Gennaro Ruo e Filippo Palizzi, con una accolta dei bravi giovani, che studiavano riuniti in casa Bonolis: essi avevano lezione di estetica da Federico Quercia e di prospettiva dall’architetto Vaccaro. Questi giovani si credevano privilegiati per essere così diretti, e per tali erano ritenuti dai letterati e dagli scolari del De Sanctis.



Il Bonolis scrisse e pubblicò alcuni precetti d’arte, dei quali erano solamente importanti per noi giovani, questi: che bisognasse copiare tutto dal vero, e osservare la tonalità nel chiaroscuro e nel colore. Questa osservazione, fatta sul vero, è mirabile nella pittura del Palizzi e fa parte della nostra educazione artistica nella nostra scuola di pittura; ma che cosa fosse il copiare tutto dal vero, come l’intendeva la scuola del Bonolis, si può vedere nei quadri di lui e del Ruo a Capodimonte. Un bel modello di uomo nudo, ispirava il Ruo a fare il suo S. Sebastiano; un altro modello, grosso, ben colorito, ispirava il Bonolis a fare un Sileno.
Epperò, forse anche per una occasione simile, credette il Bonolis di poter dipingere grande al vero una figura della più alta idealità poetica, copiando la modella, nuda, vista di spalle, fino all’attacco degli arti inferiori, e rappresentare così Madonna Laura al bagno. Gli scolari, gli amici ne dissero meraviglie ed i giornali annunziarono questo quadro come un avvenimento artistico; ma noi giovani dell’Istituto contrastammo queste lodi: il Petrarca aveva cantato in tanti modi le bellezze della sua amata, ma non l’avea mai descritta, e neppure sognata nella posa rappresentata dal Bonolis. Questa scuola perciò non ci sedusse: l’Altamura ed io, con la fantasia accesa da tutto quel risveglio d’italianità, che vibrava nei discorsi dei giovani e nelle poesie dei contemporanei, sognavamo un’arte di sentimento, che non fosse chiusa nei precetti tradizionali della scuola.

L’Altamuara avvicinò il De Napoli. Questi s’imponeva come letterato e come pittore. Disegnava benissimo e dipingeva con una sicurezza olimpica, alla prima, senza ritocchi, senza pentimenti. Aveva dipinto la morte di Alcibiade, come l’avrebbe dovuta dipingere un pittore greco o un archeologo, niente curandosi di verità, di colore, di forma, di rilievo. Si diceva che questo fosse lo stile sublime per l’arte classica; tanto che la stessa idealità lo condusse a fare il Prometeo, a Roma, e divenne ispirazione e guida ad Altamura.
Un altro artista d’ingegno non comune, Francesco Oliva, dava lezioni ad altri bravissimi giovani fuori l’Istituto. Tornato da Roma, dipingeva spesso donne nude di una intenzione senza pudore. Copiava la modella nel suo studio, con un colore, una fattura tutta sua, fredda, accurata, senza errori, e senza sentimento; e questa pittura faceva copiare ai suoi allievi.
Sarebbe interessante la storia intima dei giovani artisti, in questo periodo di tempo. Era un gruppo di compagni di scuola, uniti nell’affetto giovanile di amicizia e divisi di opinione in arte e in politica. Nessuno era buono a trovare da sé un colore che fosse espressione del proprio sentimento: ciascuno seguiva l’indirizzo di un maestro, ma l’aspirazione di tutti, sebbene di scuole diverse,era di ottenere la pensione a Roma e tutti aspettavano che si bandisse il concorso.
Un anno dopo che la nostra rivoluzione fu soffocata nel sangue, il concorso pel pensionamento venne finalmente bandito. Che ansia e che palpiti! Essere o non essere! perché, con la pensione, si aveva modo di studiare a Roma, si era certi di progredire, di dipingere grandi tele, si essere riconosciuto come il migliore fra’ giovani artisti; non riuscire, invece, al concorso significava esser condannati alla mediocrità o perdersi, come infatti avveniva sempre ai concorrenti bocciati, che o si rifugiavano nella pinacoteca a copiare pei forestieri i quadri più ricercati o davano lezioni di disegno in qualche istituto.
Furono molti i concorrenti venuti da altre scuole: da quella del Bonolis il più bravo e di bellissimo ingegno. La mattina che si doveva fare l’ex tempore, eravamo tutti convulsi. Ma, quando uscì dall’urna il tema: «l’Angelo che appare a Goffredo dall’Oriente più lucente del sole», rimanemmo smarriti. Preparati a dare saggio di pittura verista, che fare con questo tema per noi contro natura? Sbalzati d’un tratto in altro campo, restammo l’Altamura ed io, tutto il giorno, nella sala senza conchiudere nulla. Mancava solo un’ora al tempo assegnato; e, se non si dava almeno uno schizzo, si restava fuori concorso. Ci decidemmo quindi a fare un disegno, così come veniva sotto mano, tanto per rimanere fra i concorrenti.
Durante il tempo del concorso, si pronosticava del trionfo che avrebbe avuto la scuola del Bonolis, con la pittura del suo allievo, tanto bene educato all’arte. Più che preoccupati, eravamo curiosi di vederla quella pittura: l’Altamura non potette resistere alla curiosità; e, prima che finisse il concorso, sfondò improvvisamente la tela che chiudeva lo studio dell’allievo del Bonolis, vide il quadro ed esclamò: «ma dite che venga a concorrere il maestro!».
Però, finito il concorso ed esposti i lavori dei concorrenti, i migliori erano quelli dei giovani dell’Istituto. Il quadro dell’allievo del Bonolis era per concetto quasi ridicolo, di fattura grossolana e di una colorazione volgare. Noi pertanto fummo tutti convinti, che nella scuola pubblica si poteva avere più largo insegnamento ed originalità individuale, mentre nella scuola privata si finiva per copiare o per imitare il professore.
Il giorno della decisione, fra tante pitture di scuole diverse, vi fu battaglia tra professori titolari ed onorari: riuniti nella sala d’esposizione alle 8 del mattino, ne uscirono alle 4 pm. Altamura ebbe il primo posto, io il secondo, Maldarelli fu raccomandato. Entrammo sotto la tutela del Direttore e del Ministro di Pubblica Istruzione. Compresi dall’alta missione dell’arte, ed ispirati dalla situazione politica, noi eravamo disposti a dipingere, per i nostri saggi, martiri ed oppressi. Ma il Ministro doveva approvare il tema da noi proposto per il saggio del primo anno; ci fu forza quindi nascondere i nostri sentimenti. Altamura propose un israelita esule in Babilonia; io un neofita cristiano sulla tomba di un martire nelle catacombe.
Dopo sei mesi, Altamura, per cause politiche, ebbe un salva-condotto e l’ordine di partire. Andò a Firenze, contento di studiare in Toscana e far la vita dell’esule. Il mio nome, non so come, non fu trovato nella lista della polizia, ed io rimasi in Napoli, coperto dal titolo di regio pensionato.

Ma l’aspirazione di tutta la nostra vita artistica fu delusa. Il Direttore, per certi suoi imbrogli personali, non poteva andare a Roma; e mise in campo tutt’altra ragione, dicendo che noi altri giovani avevamo la testa ancora riscaldata dalla rivoluzione, che a Roma la sua autorità non sarebbe bastata a tenerci in freno, e che in Napoli con la sua direzione si poteva progredire lo stesso. Né per preghiere, né per promesse di essergli in tutto ubbidienti, riuscimmo a commuoverlo, e fummo condannati a rimanere qui, non rassegnati.
Io avevo una smania di vedere almeno quello che dipingevano gli artisti in altre parti d’Italia; e, appena terminato il saggio del primo anno, non potendo andare a Roma, andai segretamente a Firenze.
Vi arrivai di sera, guidato dal Villari, che in quel tempo scriveva il Savonarola; girammo per le vie tutta la notte; mi pareva di essere entrato nella casa di Michelangelo, di Dante, di Giotto, dell’Orgagna, di Benvenuto Cellini: mi pareva quasi di poterli incontrare per via. Il campanile del Duomo, la statua del David, Or san Michele, la Giuditta, il Perseo mi parevano tutti fatti apposta per abbellire, per ornare la loro Firenze. E mi sembrava che andassero tutti di accordo, Michelangelo, Cellini, Donatello, il Ghirlandaio, e che parlassero un solo linguaggio in diversi toni di voce. Io non potevo fissare l’occhio su di una bella forma, che un’altra più bella, di lontano, non mi attirasse. Pure, me ne dovetti ritornare, dopo dieci giorni passati continuamente nelle chiese e nelle gallerie, ché dappertutto vi era da vedere: ah se nel cervello fosse stata una spugna, avrei tutto assorbito per spremerlo qui fra i miei compagni!

Venendo da Firenze, a Napoli, tutto mi parve volgare, e la nostra un’arte fredda, senza sentimento, sconnessa, di un convenzionale radicato come una superstizione che bisognava distruggere.

E intanto, io dovevo dipingere qui, in questo ambiente, l’altro saggio ed essere giudicato dai nostri maestri, uomini d’ingegno, che pareva avessero trovata l’ultima espressione dell’arte: si doveva ricominciar daccapo con una ingenuità primitiva.
Avendo bisogno di conforto, mi avvicinai a Filippo Palizzi. E lo vedevo spesso nel suo studio al vico Cupa a Chiaia. Egli non si curava di vedere quello che dipingevano gli altri, e quasi nessuno degli artisti vedeva quello che dipingeva lui, come se si trattasse di un’arte diversa dalla loro. Egli aveva il suo mondo ed i suoi amatori a parte. Nel mese di luglio, andava a Cava, e ne ritornava a novembre portando una gran quantità di studi, dai quali componeva i suoi quadri di animali nel resto dell’anno. Ma che studio di analisi e che trovate tecniche, per ottenere quella verità di superficie con una fattura ammirabile! La sua era un’arte modesta, di piccole proporzioni; ma vi era dentro tutto un mondo di colore, di luce, di una verità, di un rilievo palpabile. Non pensava, né concepiva grandi effetti pittoreschi: trovava sul posto i suoi quadri, vacche, vitelli, capre, asinelli, erba, sassi, interni affumicati, e rendeva interessante tutto quello che ritraeva dal vero!
Aveva composta la sua tavolozza in quell’ambiente e se ne era innamorato; mi diceva: «a Cava si trova tutto, montagne, al-beri, acqua, tutto; certi tipi di uomini, di donne, di una espressione ingenua, naturale, non convenzionale come in città». - Se gli capitava un effetto pittorico di colore o di luce, che non aveva prima veduto, rimetteva ad un altro anno farne lo studio; e non si distraeva da quello che aveva stabilito di studiare in quell’anno, pei suoi quadri.
Noi due però eravamo agli antipodi: io sentivo che l’arte era di rappresentar figure e cose, non viste, ma immaginate e vere ad un tempo; io non amavo i contadini vivi, eppure li amavo negli studi di Filippo Palizzi. L’analisi che egli faceva sulla proprietà di un colore, sulle combinazioni d’un bianco sull’altro, mi educava ad osservare e comprenderne l’effetto e l’espressione. Ma l’applicazione, oh l’applicazione per lui era facile e comoda, per me era difficile! e poi, egli aveva vista poca pittura; e, senza distrarsi dalla sua, nessun ricordo di altro artista gli passava per la mente, quando dipingeva nel suo studio: egli non desiderava neppure di andare in cerca di altra campagna.
Io, invece, avevo viste troppe e diverse pitture non solo, ma le amavo tutte; in tutte ritrovavo bellezze e mi studiavo di ricordarle. Come togliere dalla fantasia tutto quello che mi aveva commosso, e che avevo raccolto nella memoria? Come staccarmene?
Pertanto io sentivo di studiare con un indirizzo migliore, senza incertezze, analizzando anche io: ma la crudeltà dell’analisi spesso sconforta l’artista nei voli della fantasia; ed io lo sentiva e non avevo più la smania di fare bozzetti.
Contrariamente al carattere chiuso del Palizzi - quasi sempre lieto della voluttà del segreto - io era eccessivamente espansivo: comunicavo ai compagni le ricerche ch’egli faceva, descrivevo a quanti più potevo la sua pittura, e quello che mi studiavo di fare anch’io. Ma pareva come se io, coi miei consigli, volessi fare abbandonare agli altri la religione dei nostri padri; al punto che, un giorno, il fratello del Celentano mi disse: «Morelli, lasciate far a mio fratello tranquillamente la sua carriera: voi con le vostre novità, turbate mezzo mondo!». Per tirare Celentano alla nostra scuola, io indussi il Vonwiller a commettergli un quadro, sopra un bozzetto ch’egli aveva fatto, allontanandosi dalla sua scuola (Il consiglio dei dieci).
Un amico mi ripeteva spesso che Palizzi era considerato come un bravo pittore di animali e io come un visionario. Intanto io lavoravo sempre con entusiasmo. Gli ultimi anni del pensionato, bisognava fare un quadro di più figure grandi dal vero. Cercando sempre un soggetto, che significasse martirio dell’anima, pensai in ultimo alla persecuzione iconoclasta ad al monaco Lazaro pittore. Studiai lungamente quella situazione; e immaginai nella figura del monaco un tipo di giovane liberale, in quella dell’esecutore brutale il tipo di un poliziotto.
Ne avevo prima fatto un bozzetto grande; lo portai al Palizzi, che ne ebbe buona impressione, come pittura realista (mi ero staccato addirittura dell’antica scuola). Egli mi fece mutare solo il tono di una piega gialla, e poi mi disse, ridendo: «bada che non ti mettano dentro!».
Finito il quadro, si convenne insieme di vederlo al mattino nel mio studio, per avere il tempo di correggervi qualche cosa: io invitai anche i compagni a venire a vederlo, giacché dalle osservazioni che avrebbe fatto Palizzi, potevano anch’essi giovarsi. Lo credereste? Non venne nessuno! Puntualmente, alle 11 del mattino, venne il Palizzi; guardò lungamente il quadro, fu espansivo, si animò e volle dipingere egli stesso sul piano una scodella del colore, rotta.
Intanto era già preparata l’Esposizione del 1855; già tutti i quadri erano a posto. Anche io avevo messo i miei: un ritratto, la conversazione di Vittoria Colonna con Michelangelo, gli angeli che di notte portano i corpi dei martiri fuori dell’anfiteatro romano.

Portai in ultimo gli Iconoclasti e feci porre la tela a terra: non mi bastava l’animo di metterla a posto, guardando tutta quella pittura intorno, liscia, sfumata, come si riteneva allora per finita; il mio quadro mi pareva di una pittura brutale e non finita. Lo guardarono i professori, così, a terra, con una curiosità premurosa di vederlo in piedi. Quando il quadro fu alzato e messo alla parete, lo guardarono lungamente, da lontano, da vicino, senza dir nulla; parevano indecisi; ma finalmente il Guerra, che era stato mio maestro nell’Istituto, mi baciò in fronte.
Guardando anche io il mio quadro a posto e quello di Maldarelli, che era accanto, e quelli degli altri intorno, ebbi allora l’impressione che il mio fosse finito e che gli altri fossero abbozzi sfumati.
Vi dirò un fatterello, che ha proprio il colore di quel tempo. Alla inaugurazione della esposizione, vennero il Re e la Regina ed il sèguito. Girarono lungamente per le sale: giunti innanzi al mio quadro, si fermarono; allora il Direttore e lo Smargiassi mi presentarono con parole lusinghiere. Il Re, guardando sempre il quadro, parlava alla moglie, ai ministri, e poi, rivolto a me, disse in dialetto: «bello piccerì: ccà dentro nce sta nu pensiero». Io compresi e mi affrettai a rispondere che la vita di quel santo pittore mi aveva interessato; ma il Re mi ripetette: «no, ccà nc’è nu pensiero». Il Ministro gli era vicino, ma non intese il significato di quelle parole, per mia fortuna: l’intese in ben diverso senso e ripetette a me, che la pittura deve esprimere idee belle; e Smargiassi aggiunse che lo sgherro era ritratto dalla figura di un nostro pittore mal riuscito e, pel monaco, mi aveva fatto da modello il Tipaldi. Si rise sulla fisionomia del pittore mal riuscito; il Re fu distratto pure da altre pitture; e fu fortuna: altrimenti, a ragione Palizzi mi avrebbe ripetuto: «io te l’avevo detto, bada».
Pochi giorni dopo, senza ritornare alla esposizione, partii col desiderio di vedere le opere di quegli artisti, de’ quali si parlava con un senso di meraviglia, perché fatte da tedeschi, uomini tanto superiori a noi. A Monaco, a Berlino, la pittura era ammirata come scienza ed io non sapevo giudicarla e mi sentivo umiliato. I famosi affreschi di Chaolbak, a Berlino, erano di una sconfinata dottrina accademica; ogni espressione aveva la sua forma convenzionale; tutti i movimenti del corpo un disegno prestabilito. A me pareva che, non sapendo la lingua tedesca, non mi riuscisse neppure di leggere quei pensieri espressi in quella forma! Parlando col grande scultore Rauk, nel suo studio, egli mi disse sorridendo: «voi altri italiani non volete riflettere sopra un’opera d’arte; vi basta solo la impressione pittoresca». Era vero? Io non la sentivo così; e però, quando ebbi la sorte di vedere il quadro di Rembrandt la Ronda di notte, mi confortai dello scoramento, che aveva prodotto in me l’arte tedesca. Questo quadro io lo comprendevo, lo gustavo: quella era pittura, quelli erano uomini esistenti e vivi; la espressione del colore e della luce era visione di un genio, e questo genio era capo di una famiglia di cui m’inorgoglivo di far parte, anche ad esserne l’ultimo.
Un altro incoraggiamento, come sprone ad altri studi, l’ebbi pure allo studio di Callet, a Bruxelles. Io conoscevo dalle stampe il suo quadro della morte del Conte di Egmont. Egli mi accolse fraternamente; mi mostrò il quadro, che dipingeva allora: aveva immaginato Giovanna la folle, che carezza il cadavere del marito. Che dramma terribile e che impressione ebbi da questo quadro!
Tra gli studi del Callet, disegnati e dipinti, mi colpì lo studio di una testa tagliata dalla ghigliottina: gli avevano permesso perciò di portarla nello studio? ad ogni modo, pensai all’importanza che si dava a Bruxelles ad un’opera d’arte. E da noi? ed a Napoli? Sarebbe stato meglio non dipingere per questa nostra gente!
Arrivato a Parigi, trovai lettere degli amici, che mi dicevano dell’effetto che il mio quadro aveva prodotto nei giovani: effetto, che io aveva desiderato, per convincere i compagni riottosi. A me poi la pittura esposta al Salone faceva una impressione di grande meraviglia; e, pensando al mio quadro, lo vedevo di una composizione accademica, di un disegno duro e di una volgare combinazione di colori. Bisognava rinascere all’arte e formarsi un altro gusto. Credetti che fosse bene non vedere certi miei disegni: scrissi a Napoli di distruggerli e fui esaudito.
Ritornato con la mente stanca, e con una gran voglia di dipingere subito e di rigenerarmi, sul principio non feci nulla. Andai dal Palizzi; e, da allora, ebbi con lui una comunanza di ricerche e di lavoro non interrotto, pur movendo egli per una via, io per un’altra. Il Palizzi perfezionava sempre la sua tecnica: l’ultima vaccarella era più bella delle altre dipinte prima, tutto era più evidente, espressivo; pareva ch’egli prendesse parte alla vita di quegli animali; quasi li comprendeva: e che grazia di movimenti in quegli agnellini, in quelle capre! Aveva fatta una testa di vitello di colore grigio: ne fece un’altra di colore roseo: faceva da sé i pennelli per dipingere l’erba, i peli degli animali: trovava modo di rendere evidente qualunque superficie, le pietre, l’acqua, gli alberelli, la paglia secca; trovava la nota pittorica persino nel dipingere la stalla col letame! Ogni volta che io, esaltato alla vista della grande verità di una tinta, di un rilievo ottenuto maestrevolmente esclamavo: «bellissimo!», egli rispondeva: «eh no, mancano certe qualità, vedrai, vedrai».

Io ero il primo a veder gli studi, che Palizzi portava da Cava nel novembre; me li metteva davanti, uno per volta, con ordine: prima uno studio di un capretto o di una macchia, e poi un altro, e poi un altro, ed all’ultimo una vacca finita perfettamente. Non mi mostrava quasi mai studi di montagne o boschi lontani: qualche studio di nuvole lo faceva solo per vincere la difficoltà della trasparenza, con una osservazione mirabile. E, dopo di aver guardato, ammirato, dopo di essermi immedesimato in tutta quella pittura, ritornando nel mio studio, io mi sentivo solo, solo e smarrito, come in un altro mondo. Palizzi ad occhi chiusi poteva vedere campagne, animali, contadini, che aveva guardati se non dipinti: io non avevo visto nulla di ciò che volevo dipingere, dovevo immaginare, vedere con la fantasia, creare il mio mondo sconfinato di tipi diversi, di uomini, di donne, di vesti, di tempi lontani e di luoghi, che non avevo mai studiati e neanche veduti! E la pittura di Palizzi pareva che mi dicesse: guarda quella tinta, guarda quelle ombre, guarda quei toni di colore, guarda bene quel movimento vero, tanto lontano dal convenzionalismo della scuola.
Un’altra cosa, di cui non potevo avere esempio né sapevo cercare da me, era l’eleganza di una figura, la nobiltà della forma: io odiavo qualunque forma plebea. In genere, nella nostra scuola antica e moderna, grandemente geniale, manca quella eleganza di disegno, che abbandona nelle antiche scuole toscana, umbra, lombarda ecc. Fra i moderni mi trovavo tra due pitture, quella convenzionale dei nostri maestri e quella del Palizzi, che mirava solo a far bene colore, forma e tono.
In tutti i miei compagni era penetrata la convinzione che ogni artista deve dipingere secondo il proprio modo di sentire; e così vennero alle esposizioni quadri strani, di una composizione giudicata scorretta dagli accademici, e di una esecuzione giudicata manierata dai realisti. Di tutto questo risveglio di attitudini diverse dettero bella prova i nostri migliori giovani artisti. Per l’entrata in Napoli di Vittorio Emanuele, dovevano dipingere gli archi di trionfo imitanti antichi arazzi, ma si trovarono di fronte a due difficoltà: rappresentare alcuni fatti delle guerre di indipendenza, dipingere a tempera in poco tempo. Fecero bene: una pittura impreveduta, che fu come una manifestazione della nuova scuola. Peccato che di tutto questo lavoro non sia rimasto alcun ricordo! Nella prima grande esposizione italiana di Firenze, si mandò da Napoli tutto quello che si poté raccogliere di meglio. Si presentarono in massa quadri di vecchi professori, di giovani maestri, accademici e rivoluzionarii. Fu una rivelazione pel resto degli artisti italiani, che vedevano l’arte nostra per la prima volta; e avemmo pure ragione della nostra riforma, ingiustamente contrastata, tanto che ne fu esagerato il merito. Malatesta fra gli altri aveva esposto il suo gran quadro: la morte di Ezelino da Romano; e fu tale l’impressione che ebbe dalla nostra pittura, che, abbracciandomi, disse: «mi rifarò daccapo, vedrai; è vero che - parva favilla gran fiamma seconda - ».
La nostra nuova scuola partiva da una mente, più riflessiva che immaginosa, di un uomo seduto in campagna, col suo cassetto e la tavolozza sulle gambe, ed una pecora o una vaccarella davanti, analizzando l’effetto della luce e del colore, trovando la maniera di imitare la superficie tal quale la vedeva nel modello; avendo egli mostrato queste tele nel suo studio al Vico Cupa a Chiaia ad un altro pittore, più immaginoso che riflessivo, si venne formando un principio di scuola, che a poco a poco penetrò nell’animo degli ingegni più eletti; e prima fra noi, e poi, dopo la mostra di Firenze, fu inteso dagli artisti di altre regioni di Italia, e ne venne fuori tutta una riforma, combattente quel convenzionale accademico, contrario alla scrupolosa ed assoluta ricerca del vero.
Ci associammo, da Napoli, a Firenze con il Pollastrini, Dupré, Chelone, Tivoli, Ussi; a Genova con Luxoro, Gandolfi, e D’Andrade; a Torino con Enrico Gamba; a Milano con Pagliano, Bertini, Farruffini, Cremona, de Albertis; a Venezia con Pompeo Molmenti; e poi, altri più giovani seguirono.
In Napoli, mancando le esposizioni governativa, si organizzò per supplirvi - una associazione promotrice di artisti ed amatori. Nel dietro bottega del pittore Guglielmi, alla salita Museo, sopra un tavolo comprato per otto carlini (e che si è conservato per memoria) fu formulato uno statuto da Annibale Rossi, pittore, che era l’anima dell’associazione, dallo Smargiassi e dal Palizzi - ravvicinati -, dall’Alvino, dal Carrillo, e da me: Landolfi ne era segretario.
La prima manifestazione della nostra società fu l’esposizione a Tarsia, che ebbe uno splendido risultato: fu onorata della visita di Vittorio Emanuele e furono vendute tutte le opere esposte, tranne una. Questo quadro non venduto era di un giovane artista, e rappresentava la scena di un’esecuzione capitale, descritta dal Cantù nella Margherita Posterla; ma, chiusa la mostra, esso fu comprato da tutti gli artisti espositori, pagando ciascuno la sua quota, ed è poi rimasto, per lungo tempo, nella segreteria dell’associazione.

Il Palizzi, che aveva esposta e venduta una testa di vitello, volle donarne il prezzo alla cassa dell’associazione, che, con la riuscita dell’esposizione, cominciò la sua vita, avendo l’altissimo intento di mantener sempre viva la gara tra gli artisti con le esposizioni annuali e col premiare le migliori opere esposte.

L’uscita del Palizzi dal suo volontario isolamento fece nascere l’idea ad alcuni signori di riunirsi e studiare sotto la sua direzione. Trasformarono a studio una bottega al largo Vittoria, ed ivi, insieme con alcuni bravi giovani artisti, andavano di sera a disegnare il nudo. Questa divenne presto una piccola scuola fuori l’Istituto, la scuola Palizzi, con un metodo derivato dalla scuola Bonolis, proponendosi, cioè, di studiare ricercando sul modello vivo piani e toni; ma così avvenne che i disegni dei vari giovani - buoni o cattivi che fossero - parevano fatti tutti da una sola persona. Sul modello nudo vi è ben altro da studiare; e, anche quando il modello è unico, le impressioni sono varie. Perché dunque restringersi a sole osservazioni materiali? Ne parlai al Palizzi, ed egli mi disse che voleva abituare quei giovani a distinguere i piani come si distinguono e si disegnano sopra una pietra o una palla: dopo, chi avrebbe avuto talento, avrebbe fatto da sé. Bravo! ma l’arte non è così ristretta. Del resto, vi son tante vie per andare a Roma, e non glie ne parlai più.
Ad ogni modo, e per diverse vie, tutti progredivano i miei compagni accademici: anche i maestri, dipingendo grandi tele, erano tutti liberi di abbandonarsi al proprio genio; anche nei quadri per le chiese cominciarono a non essere costretti assolutamente da uno stile preconcetto.
Non posso ricordare senza commuovermi la più bella Esposizione della nostra Società Promotrice nelle sale terrene al nord del Museo Nazionale, dove per tanti anni si erano esposte le opere di concorso della nostra scuola accademica.
Che raccolta interessante di belle opere d’arte! Avevano mandato da Milano un bellissimo quadro l’Induno e due superbi acquarelli il Faruffini, ed il modello della statua di Strazza: Ismaele morente assetato. Ora non ricordo quali opere fossero state mandate da Torino, da Firenze, da Roma; ma da Genova venne un paesaggio del D’Andrade.
Ricordo bene dei nostri artisti: Odii vecchi e amori nuovi dell’Altamura; del Toma: l’esame rigoroso; del Parisi: la pace di Villafranca; ed altre opere del Vertunni, del Petrocelli, del Nicoli; e ricordo commosso tutti questi cari nomi.
Il Patini dipinse la scena dei soldati tedeschi penetrati nello studio del Parmegianino, che resta impassibile e continua a dipingere la Madonna. Il Tofano espose: la monaca al coro nel giorno di venerdì santo, di un sentimento così gentile, espres-so con una fattura mirabile. Il Boschetto: Galileo innanzi ai cardinali inquisitori, che non pareva opera di un giovane; ed il Mila: Plauto nel molino. Vero il concetto di questo quadro e vera la esecuzione: così doveva essere la figura di Plauto e così quella dei mugnai.
Netti espose una pittura di sentimento e di verità commovente.
L’esposizione era ricca di maniere diverse di pittura, ma nessuna brutta. La folla dei curiosi fu enorme e gli introiti fatti confermarono il successo.
Palizzi subiva l’influenza di questa pittura di commozione, di questa pittura di sentimento, ma continuava a dipingere i piccoli idilli degli animali di Cava. L’effetto morale però di questa esposizione fu quello di scuotere anche Filippo Palizzi.
Un giorno, egli venne ad aprirmi la porta con un sorriso: entrammo assieme nello studio, ed egli m’indicò, con un movimento di testa e con un monosillabo: «tè», il quadro che aveva sul cavalletto. Non potetti fare a meno di esclamare: «oh! finalmente!». Egli aveva quasi tutto dipinto di fronte un cervo, che, inseguito dai cani, si precipita nel vuoto. L’animale si staccava talmente dal cavalletto, era talmente vero, che pareva dovesse cadere a terra! Una composizione ardita, immaginosa, che egli aveva concepita nella sua mente, e non copiata, né vista, dal vero. Questo quadro, a mio avviso, è la sua opera più completa; come insuperabile è la pittura del fondo, nel suo quadro degli animali che escono dall’arca.
Giuseppe Palizzi, ritornato in quel tempo a Napoli, ebbe voglia di restarvi, ma osservò che la scissura tra quelli dell’accademia e noi era un errore.
Fu allora che io entrai come professore di pittura nell’Istituto, dove avevo studiato tanti anni. Vi insegnavano l’Alvino, il Mancinelli, l’Angelini, lo Smargiassi, il Ruo, il Catalano: tutti artisti di non comune ingegno e di animo generoso; andammo subito d’accordo. Feci accettare il Perricci per la scuola di pittura ornamentale, il Lista ed il Toma come professori di disegno.
Il Direttore era letterato d’ingegno e di cultura geniale, ma non stimava i professori, né amava i giovani, né credeva all’avvenire della scuola. Si sentì quindi il bisogno di un artista per la direzione dell’Istituto: fu allora nominato direttore Filippo Palizzi.
Smessi i rancori fra quelli di fuori ed i professori, aperta a tutti la scuola del nudo, nacque un’emulazione invidiabile fra tanti giovani d’ingegno.
Francesco Paolo Michetti aveva avuto il premio nella 2a classe di pittura, e Eduardo Dalbono aveva dipinto il quadro: la scomunica di Manfredi.






Eduardo Dalbono - Pescatori di Napoli 


Organizzammo armonicamente un insieme di studi, dalle classi elementari a quelle del nudo e della pittura. Vennero a studiare fra noi giovani di altre scuole d’Italia ed anche dall’estero: nella scuola di pittura erano 31 gli alunni, di cui solo 7 napoletani.
Si studiava con entusiasmo. Riconosciuto da tutti il risultato delle nostre cure nelle esposizioni di tutti i disegni e dipinti fatti nell’anno, molti di questi disegni furono scambiati con gli originali litografati.
Abolito il pensionato e sostituito da commissioni di quadri per la pittura, di progetti per l’architettura e di statue per la scul- tura, i migliori premi l’ebbero nel primo anno i nostri Esposito, Milanesi, Barbieri; e, in sèguito, Volpe, Migliaro, Postiglione, De Sanctis, Rossi, Trovatini e Sorgente, per quel che ricordo. Insomma era un ricambio di amore e di cure fra tutti i professori; e Palizzi, senza avvedersene, abbandonava il suo studio, restando tutto il giorno nell’Istituto.
Ma una grande sventura colpì la nostra scuola; ed io, pensando a quel brutto giorno, a quel giorno sempre maledetto, non posso continuar serenamente il mio discorso, ché la calma mi abbandona.



Vincenzo Volpe - Donna Carmela
 


 Vincenzo Migliaro - Giovani donne






 Luca Postiglione - Ritratto



Filippo Palizzi, i professori, i giovani tutti si erano formato un alto concetto dell’arte e della scuola. Il giusto orgoglio di Palizzi, la sua coscienza si ribellavano a tutto quello, che egli riteneva d’impedimento al progresso degli studi: non potette dunque cedere alle pressioni del governo, che voleva imporre professori non atti all’insegnamento, e dette dignitosamente le sue dimissioni da direttore. Nessuno l’avrebbe mai creduto, ma le dimissioni furono accettate, ed egli uscì dall’Istituto, raccomandando ai giovani di non insorgere: fu accompagnato alla porta in silenzio, con le lagrime agli occhi!
Ricordo con dolore quel giorno.
Io l’attendevo nel mio studio. Egli venne e mi guardò con un amaro sorriso: aveva pianto. Entrò nel suo studio e ritornò, mostrandomi un tubo di biacca indurita, e disse: «ecco di tanta fatica il compenso!». Da più anni non aveva dipinto.
Mi dimisi anch’io: i nostri cari professori, come colpiti da panico, non ci seguirono: gli alunni si sbandarono.
Palizzi, uscito dall’Istituto, potette continuare in altro campo - nel Museo Industriale - le sue ricerche sulle forme e sui colori delle foglie e dei fiori, e farne un bello studio ornamentale. Si può affermare che, in certo modo, egli fu di grande utilità specialmente nella ceramica: si immedesimò talmente nei lavori dell’officina, che ne divenne, sarei per dire, un capo operaio.
Dai suoi lavori, esposti al Museo, si vede che un sol concetto lo guidava: imitare la natura e non copiare per nulla gli stili antichi. Si è creata così una scuola diversa dalle altre di questo genere, che, per aver troppo sbizzarrita la fantasia, son divenute uggiose. Questa scuola, senza rumore, ha prodotto un gran bene. Da queste fabbriche di ceramica, da queste officine di modellato sono usciti molti bravi giovani, occupati con profitto nelle officine di Napoli e fuori. Alcuni sono ben riusciti come capi-fabbrica.
Con questi giovani, educati a siffatta scuola, ho potuto fare il prospetto del Museo; e, se voi l’osserverete, potrete vedere quanto si accosti al vero nella forma, nel colore ed anche nel modellato, quell’imitazione delle foglie e dei fiori.
Il Museo ha relazioni immediate con l’Istituto di Belle Arti. L’arte maggiore guida perennemente, in tutte la manifestazioni della forma, l’arte decorativa.
Uscito il Palizzi dall’Istituto, la scuola cominciò a precipitare. Affidata la direzione ad un professore di geografia, si perdette ogni alto concetto dell’arte, e questa, invece, si considerò come un esercizio utilitario, al punto che nelle sale dell’Istituto fu pronunziata la più grande bestemmia: che oggi, cioè, dell’arte bisogna imparar tanto quanto basti a guadagnare il pane!
Girate per le chiese, per i tempii, per i caffè, e giudicherete il risultato di tanta iattura.
Camillo Boito, nei suoi scritti d’arte, ha detto che Napoli prima ha dato un forte impulso al progresso dell’arte: ora è rimasta indietro. E, sventuratamente, il giudizio non è del tutto azzardato. Ma quegli artisti che ne hanno la colpa non sono suscettibili di rimorsi.
E con la scuola anche le esposizioni della promotrice a poco a poco caddero. Alla gara artistica successe una lotta venale senza pudore: nessuna opera geniale, importante; nessun vero interesse nel pubblico. Dopo queste cattive prove, anche il Governo sentì la necessità di arrestare questo precipitare degli studi e di mutare l’indirizzo della scuola: il Palizzi fu richiamato alla direzione, e con lui anch’io all’insegnamento.
Alla cerimonia con cui Palizzi fu insidiato nel suo posto, il Governo, anche come soddisfazione morale, mandò l’On. Pullé, Sottosegretario di Stato per la Pubblica Istruzione.
Questi, con acconce parole, diede alla festa il carattere di una pubblica manifestazione, cui fecero plauso i giovani e gli artisti. Tutti si ripromettevano di far rivivere, in quelle stesse sale, quell’amore all’arte e quella fede, che avevano guidata la scuola in altri tempi.
Ma quando, il giorno seguente, Palizzi ed io rientrammo con calma nell’Istituto, ci sentimmo addolorati ad avviliti nel vedere in quale stato era ridotto. Tutto era mutato; perfino le sale non sembravano più quelle. Pareva quasi che non fosse più un istituto di belle arti, ma tutt’al più una scuola tecnica, cui fosse stato aggiunto un esercizio di pittura!
Fummo presi da un grande sconforto, non sapendo da dove cominciare la necessaria trasformazione e da quel punto cercar di rimettere in via l’andamento degli studi. Ci mancava il coraggio e la forza, incerti se si potesse continuare, o se si dovesse abbandonare l’impresa.
I professori, che alla nostra uscita dall’Istituto non ci avevano seguiti, erano sempre là: ma i lavori che i giovani avevano fatti nella nostra assenza non erano più quelli di una volta.
Tuttavia Palizzi strinse la mano a tutti, non volendo ricordare come e perché egli fosse uscito dall’Istituto ed essi vi fossero restati.
Ricominciando il nuovo indirizzo degli studi, pensò di modellarlo su quei principii, coi quali aveva studiato in casa Bonolis e guidati i giovani nella sua scuola privata al largo Vittoria: ma questi studi erano pochi e ristretti alla sola intenzione dell’imitazione del vero nella superficie, nei toni e nei colori.
Intanto, per un pio sentimento di patriottismo, egli già da anni aveva incominciato un quadro per la chiesa del suo paese nativo: S. Giovanni che precorre il Redentore.
Per circa sette anni, egli lavorava intorno a questa tela, che non mostrava mai a nessuno; lavorava, ma non progrediva. Egli non aveva educata la sua mente ad alte visioni estetiche e si trovava innanzi a grandissime difficoltà, per rendere il simbolo religioso, cristiano, in un quadro che faceva per una chiesa.
Ritornato all’Istituto, ebbe quasi l’idea che, portato il quadro in quell’ambiente di arte classica, avrebbe potuto trovare una nuova ispirazione. Ma nemmeno all’Istituto gli riuscì di mutar nulla. Si avvide che quella pittura non poteva essere più soltanto una splendida imitazione del modello, e che anche l’Accademia poteva avere il suo lato buono. Senza forse accorgersene, cercò d’innestare nel suo quadro la concezione accademica con quel che mancava alla sua arte realistica.
Si è avuto torto a combattere l’Accademia? No: si è voluto solo combattere il manierismo nell’arte, e si ha torto di credere, che qualunque cosa dipinta con gusto d’esecuzione e con verità di luce e di colore sia arte e sia venuta fuori dalla riforma. I mediocri ingegni la intendono così e riempiono le mostre di studi, che pochi comprendono e che non interessano alcuno.
Lo studio del vero nella esecuzione ha guidati gli intellettuali colti a comprendere più altamente e penetrare più addentro nel concepire e rappresentare con verità l’idea da essi immaginata, o la situazione di un fatto storico o di una leggenda.
Nella pinacoteca di Capodimonte vi sono due quadri dello stesso soggetto.
Non fo paragone – intendiamoci – tra i due autori, ma fra l’uno e l’altro dipinto.
L’uno grande, di un glorioso pittore accademico, rappresenta la scena tragica della storia romana: la morte di Virginia. Pare di assistere ad una bella rappresentazione teatrale. Il padre sostiene con un braccio la figliuola morente col più bello ed elegante movimento di figura cadente; con l’altra mano, armata di coltello, minaccia Appio, che, seduto in alto, stringe la toga nel pugno e lo guarda torvo. Un’altra figura seminuda si slancia col braccio teso: rappresenta il beccaio, che reclama il suo coltello. Gli spettatori, con le più ricercate movenze classiche, l’attorniano, e pare che ciascuno abbia studiata la sua parte. Il fondo, di grandi linee architettoniche, deve essere Roma.
Noi ammiriamo questa scena, come in un teatro, e possiamo anche applaudire alla bella finzione; ma non possiamo commuoverci, come innanzi ad un fatto vero.
L’altro quadro è di piccole dimensioni. Scorgendolo da lontano, vi attira, e voi vi avvicinate per veder che cosa accada. Una fanciulla a terra, uccisa; una donna corre verso di lei, in mezzo a gente diversa. Sulle teste di una folla disordinata, si leva un braccio con la mano che stringe un coltello insanguinato e minaccia qualcuno, lontano. Cercate Appio e lo trovate subito, con la toga rossa, sotto il Campidoglio. Tornate involontariamente a guardare la fanciulla uccisa e vi sentite commosso. Questa scena è vera: la strada, le botteghe vi ricordano Pompei; vi è il Campidoglio in alto; tutto vi dice che siamo a Roma; la tragedia di Virginia è tanto vera, che essa non si può dir più leggenda, ma storia.
Pensando che questo quadro è stato concepito e dipinto da un allievo dalla nostra scuola, io dico: ecco il bene che ha fatto la riforma! Il male del realismo sparirà, quando sarà elevata la cultura nei migliori ingegni, e tutti, ricordando Filippo Palizzi, benediranno alla sua memoria.

Author: Domenico Morelli (revised Vincenzo Caputo).